Trading e fisco: la tassazione delle rendite finanziarie
Aggiornamento 13.7.2021
Tutte le attività che generano reddito sono soggette a una tassazione da parte dello Stato, che in questo modo ottiene le risorse per realizzare i servizi di comune utilità, come strade, ospedali, sicurezza e così via. A questo principio è soggetta anche l’attività di trading online svolta da utenti privati. Questa si attua utilizzando strumenti finanziari che possono generare reddito in due modi: attraverso la negoziazione e attraverso il loro possesso.
Per questo motivo la normativa italiana prevede, ai fini fiscali, due categorie di reddito:
- Redditi diversi di natura finanziaria, in cui sono comprese le plusvalenze derivanti appunto dalla negoziazione degli strumenti finanziari (azioni, obbligazioni, derivati, etc.).
Questi redditi sono a loro volta divisi in due sottocategorie, ovvero redditi derivanti da partecipazioni “qualificate” e “non qualificate” o assimilabili. Cosa significa? Che la legge distingue tra chi possiede almeno il 20-25% del capitale di una società – facendo quindi un imprenditore o un socio di capitale interessato alla gestione dell’azienda – e chi invece negozia piccole porzioni del capitale (azioni) per speculazione finanziaria. - Redditi di capitale, in cui rientrano cedole, interessi, dividendi ed eventuali altri redditi ottenuti dal solo possesso degli strumenti, e ciò in quanto gli strumenti stessi li prevedono.
Da quanto esposto sopra, è facile comprendere come i redditi prodotti dal trader, inteso come colui che opera online sui mercati finanziari per speculare sulla negoziazione di strumenti finanziari, rientreranno soprattutto nella prima categoria. Nel 2011, inoltre, l’Agenzia delle Entrate ha specificato che in essa rientra anche il trading sul Forex (negoziazione in cambi).
I regimi di tassazione delle rendite finanziarie
Tutti i contribuenti possono scegliere due strade per pagare le tasse:
- il regime amministrato;
- il regime dichiarativo.
Il primo regime consente di evitare di compilare da soli la dichiarazione dei redditi, caricando di questa incombenza il proprio intermediario finanziario.
Ma attenzione: l’intermediario (che nel caso del trading si definisce anche broker online) deve essere autorizzato come “sostituto d’imposta”, altrimenti la dichiarazione resta a proprio carico (ovvero è necessario incaricare un commercialista).
Tutti gli intermediari italiani, banche, SIM, SGR e altri, sono sostituti d’imposta, quindi quella del regime amministrato è una strada percorribile. Per quanto riguarda invece i broker esteri, bisogna verificare con loro caso per caso, perché alcuni, che di solito hanno un’intensa attività in Italia e un ampio numero di clienti, lo sono, mentre la maggior parte non lo sono.
Chi opta per il regime amministrato deve solo pensare a guadagnare, al resto pensa tutto l’intermediario: fa i conti, trattiene le tasse dovute e le versa all’erario, inviando annualmente la relativa certificazione.
Chi invece opta per il regime dichiarativo, ovvero per la compilazione autonoma della dichiarazione dei redditi, è obbligato a compilare la dichiarazione e a farlo in modo analitico. È possibile compensare plusvalenze e minusvalenze per i successivi quattro anni dall’anno della dichiarazione, ma solo tenendo sempre separati i redditi da partecipazione qualificate e non qualificate (non compensabili quindi tra loro).
Quanto si paga di tasse sul trading
Le aliquote – ovvero i livelli di tassazione – vengono modificate periodicamente, quindi ciò che è valido per un anno fiscale può non esserlo per i successivi.
All’inizio del 2018 l’aliquota sui “redditi diversi di natura finanziaria” per “partecipazioni non qualificate” (risalente a una modifica normativa del 2014) era del 26%, al netto delle minusvalenze: cioè, dopo un certo periodo si confrontano guadagni e perdite e pagano le tasse solo su quanto si è effettivamente guadagnato.
I titoli di Stato italiani ed esteri, inseriti in una specifica lista redatta dal Ministero dell’Economia e delle Finanze, sono invece soggetti a una tassazione del 12%, ciò per incentivare i risparmiatori e conferire i loro capitali allo Stato.
L’imposta sulle transizioni finanziarie
Erroneamente nota come “Tobin tax”, l’imposta sulle transazioni finanziarie è stata introdotta in Italia nel 2012. Si applica sulla compravendita di azioni, di derivati su azioni e su indici italiani o indici con più del 50% di azioni italiane, e di azioni derivanti da conversione di obbligazioni.
Le azioni in questione devono però essere emesse da società quotate con sede in Italia (sono quindi escluse tutte le azioni estere), la cui capitalizzazione media nel mese di novembre dell’anno precedente a quello della negoziazione sia superiore a 500 milioni di euro.
L’imposta in questione è dello 0,12% sui volumi transati, che diventa dello 0,20% se si tratta di titoli scambiati si circuiti non regolamentati (OTC), e viene calcolata compensando plusvalenze e minusvalenze alla fine di ogni giornata di Borsa.
Quando presentare la dichiarazione dei redditi
La dichiarazione deve essere presentata entro il 30 settembre dell’anno successivo a quello a cui la dichiarazione si riferisce (per esempio i redditi del 2017 devono essere dichiarati entro il 30 settembre 2018), ma i versamenti devono avvenire comunque entro il 30 giugno (entro il 31 luglio con il pagamento di una penale dello 0,40%).
Se la dichiarazione non viene presentata o viene presentata con non più di 90 giorni di ritardo, la penale è del 120-140% dell’imposta dovuta, mentre se la dichiarazione non indica erroneamente alcun reddito o indica un reddito inferiore, la sanzione va dal 60% al 270%; per i casi più gravi (es. oltre i 150.000 euro di imposta dovuta evasa e in latri casi specifici) è prevista la reclusione da 1 a 4 anni.
di Andrea Fiorini
L’autore ringrazia Vincenzo Quarta per la collaborazione nella stesura del presente articolo.
L’articolo è di carattere divulgativo aggiornato alla data di pubblicazione. Per conoscere l’offerta della Banca consulta l’area Prodotti.
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