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Trading con certificati

19/11/2019

La MIFID II recentemente entrata in vigore obbliga gli emittenti a dotare i prodotti finanziari emessi di un KID o key information document, cioè il documento delle informazioni fondamentali, che deve indicarne il livello di rischio. Quest’ultimo deve essere compreso in una scala da 1 (basso rischio) a 7 (massimo rischio).

A questa novità sono ovviamente soggetti anche i certificati, altrimenti noti come certificates, che nella scala suindicata sono solitamente caratterizzati dai gradi 3, 5 o 7. Ma di cosa si tratta esattamente? E perché hanno gradi di rischio così diversi tra loro?

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certificati sono strumenti finanziari che in Italia vengono quotati sul Sedex (Securitized Derivatives Exchange), circuito che recentemente si è trasformato da mercato regolamentato in MTF. Pur trattandosi di derivati, infatti, i certificati, come i covered warrant, non sono “contratti” come i future o le opzioni, ma sono “titoli”, in particolare titoli di debito cartolarizzati, quindi non sono quotati all’IDEM.

Questa loro natura li rende soggetti a norme specifiche ma, soprattutto, ne fa strumenti che possono essere emessi esclusivamente dalle banche, che si rendono garanti del pagamento degli importi e dei flussi previsti dal prospetto informativo.

In quanto derivati, il loro valore dipende da uno o più sottostanti, poiché si tratta generalmente di una combinazione di opzioni. Queste possono essere standard (plain vanilla), oppure esotiche, ovvero caratterizzate da più clausole specifiche ed inusuali. Possono essere inoltre indicati come certificati d’investimento (investment certificate) o certificati a leva (leverage certificate).

La loro natura di derivati “componibili” rende i certificati adatti a diverse strategie di trading e a differenti obiettivi d’investimento.

Le macro-categorie in cui si suddividono sono quattro:

  1. certificati a capitale protetto (se tenuti fino a scadenza l’emittente rimborserà sicuramente l’intero capitale investito, mentre gli eventuali interessi dipenderanno dall’andamento del titolo rispetto alle clausole previste);
  2. certificati a capitale condizionatamente protetto (rispetto ai primi garantiscono soltanto una parte del capitale investito, solitamente a fronte di potenzialità – e quindi anche rischi – maggiori);
  3. certificati a capitale non protetto (possono replicare l’andamento del sottostante in modo pedissequo o proporzionale, non vi sono garanzie sul capitale investito);
  4. certificati a leva (replicano l’andamento del sottostante secondo un moltiplicatore indicato, che può essere fisso o dinamico).

Le varianti dei certificati

Oltre alle quattro tipologie sopra indicate, i certificati si articolano in almeno 14 varianti di base, così come catalogate dall’ACEPI (Associazione Italiana Certificati e Prodotti di Investimento, che riunisce i principali emittenti italiani)ognuna delle quali presenta rischi e opportunità differenti, che inoltre possono essere disponibili sia in versione short (per puntare sul ribasso del sottostante) e long (per puntare al rialzo).

Molte sottocategorie di certificati prevedono una “barriera”, ovvero un livello di prezzo che, se raggiunto, fa scattare la perdita della protezione totale o parziale sul capitale. Per esempio, i certificati a capitale condizionatamente protetto prevedono il rimborso parziale del capitale se non si raggiunge una determinata barriera nel periodo considerato. Anche i certificati a capitale non protetto replicano fedelmente il sottostante, ma spesso ne incrementano il movimento in modo proporzionale o attraverso dei moltiplicatori.

Infine, i certificati vengono proposti sul mercato con nomi commerciali diversi a seconda delle loro caratteristiche ma a che a seconda dell’emittente. Nomi commerciali sono per esempio Turbo, Double Win, Digital, Express, Butterfly, Airbag, Bonus, Cash Collect e molti altri. In ogni caso, trattandosi di strumenti complessi, per comprenderne tutte le implicazioni è fondamentale leggere sempre con attenzione le schede informative fornite dagli emittenti.

Rischi e vantaggi

Come per ogni strumento finanziario, i certificati presentano rischi d’investimento, tra cui il rischio di fallimento dell’emittente: se la banca che li ha emessi dovesse fallire, il capitale andrebbe interamente perso.

Inoltre alcuni certificati soffrono di una scarsa liquidità e ciò può impattare sui prezzi di negoziazione. Avendo moltissimi profili differenti (capitale protetto, non protetto etc.) è intuitivo che i rischi e i vantaggi possono variare enormemente da una tipologia all’altra. Gli elementi che impattano direttamente sui rendimenti dei certificati sono la volatilità del sottostante (che può far aumentare il prezzo ma anche portare al rapido raggiungimento della barriera), la distanza temporale dal momento della scadenza, i dividendi generati dal sottostante (che non vengono distribuiti ma che influenzano costi di negoziazione e andamento) e la connessione tra gli andamenti dei vari sottostanti (se il certificato incorpora opzioni su strumenti diversi).

Si tratta in definitiva di uno strumento di complessa costruzione e di non facile comprensione, poco trasparente ai non esperti soprattutto per quello che riguarda il suo esatto valore in ogni momento.

Dal punto fiscale, i guadagni sono tassati al 26% in quanto “redditi diversi di natura finanziaria” e le minusvalenze possono essere compensate con le plusvalenze, oltre a essere gravati dalla tassa sui redditi finanziari (Tobin tax).

Un esempio: come funzionano i Turbo e i Digital

Tra le molte tipologie, prendiamo ad esempio i cosiddetti Turbo Long per spiegarne il funzionamento, che sono certificati per molti versi tra i più “estremi”, adatti a trader con ottica speculativa.

Si tratta di certificati a capitale non protetto (a rischio di perdere l’intero capitale investito), “a leva” (moltiplicano il valore del sottostante per un fattore definito, quindi variano di un’ampiezza maggiore rispetto al sottostante) e questa leva è “dinamica” ovvero si adatta alla situazione di mercato secondo regole proprie. Il Turbo ha inoltre un livello di “strike”, cioè un livello di prezzo del sottostante al di sotto del quale il certificate si estingue e il trader perde tutto.

Ipotizziamo un Turbo Long (che cioè moltiplica il valore del sottostante e scommette sul suo rialzo) che ha come sottostante il FTSE MIB (future sull’indice azionario italiano); ammettendo che il FTSE MIB quoti a 20.000 e che il nostro Turbo abbia uno strike a 16.000 (cioè se FTSE MIB scende a questa quota perdiamo tutto), lo acquisteremo per esempio al valore di 19.000 pagandolo però 2.900 grazie all’effetto leva (il resto viene finanziato dall’emittente).

A questo punto, se entro il periodo previsto il sottostante toccherà i 21.000 punti, avremo realizzato una performance di 1.000 punti rispetto ai nostri 2.900 (e non quindi rispetto ai 20.000), ovvero +34,5%. Viceversa, se l’indice fosse sceso sotto i 16.000 punti avremmo perso tutto.

All’estremo opposto, i Digital offrono una maggiore sicurezza ma, ovviamente, rendimenti inferiori. Il meccanismo può essere questo: investo in un certificato Digital della durata di tre anni su un’azione quando questa vale 100. Ogni anno vi è uno step di valutazione: se il sottostante vale di più di quanto rilevato alla sua emissione, l’investitore riceve il bonus previsto, altrimenti nulla. A scadenza, si rientra in possesso del 100% del capitale e dell’eventuale bonus.

 

di Andrea Fiorini

 

 

 

 

L’articolo è di carattere divulgativo aggiornato alla data di pubblicazione. Per conoscere l’offerta della Banca consulta l’area Prodotti.

 

 

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